Palermo, 14 ottobre 2013 – ”Condotte opache” e ”scelte operative discutibili”, ma nessun accordo per lasciare libero e impunito per anni il boss Bernardo Provenzano.
I giudici della quarta sezione del tribunale di Palermo che, a luglio, hanno assolto l’ex vicecomandante del Ros, il generale Mario Mori, e il colonnello, Mauro Obinu, dal reato di favoreggiamento alla mafia, in 1322 pagine di motivazione della sentenza smontano il teorema dei pm che vedeva nei due ufficiali gli intermediari, presso Cosa nostra, di esponenti delle istituzioni intenzionati a scendere a patti con i boss per fare cessare la stagione delle stragi.
Anche attraverso concessioni come, appunto, l’impunita’ del padrino di Corleone e la revoca di centinaia di provvedimenti di carcere duro. Nodo centrale di un processo diventato l’atto d’accusa a una classe politica, colpevole d’aver trattato, era il mancato blitz che, per i pm, nel 1995 avrebbe potuto portare alla cattura di Provenzano e che fu stoppato dagli imputati. Una delle prove dell’accordo, secondo gli inquirenti. Ma i giudici, pur ravvisando delle opacita’ nelle condotte investigative dei due ufficiali escludono che il boss corleonese resto’ libero grazie a uno scellerato patto tra la mafia e lo Stato.
“Non puo’ che ritenersi priva di ogni riscontro – scrivono – e perfino contraddetta da inoppugnabili dati di fatto l’affermazione secondo cui, grazie all’accordo concluso con esponenti delle istituzioni, Provenzano era sicuro da ogni ricerca”. Nella sentenza, che, dunque, sostanzialmente nega l’esistenza di una trattativa si smentisce anche che lo Stato abbia ceduto davanti a Cosa nostra. “La cattura di Riina – si legge – ha costituito una svolta che ha ridato fiducia e slancio all’azione di contrasto all’associazione mafiosa, che da li’ in poi ha conosciuto una ragguardevole continuita’. E se anche nell’autunno del 1993 si scelse di lanciare a Cosa Nostra un segnale di distensione, non rinnovando, per alcune centinaia di detenuti, il regime differenziato previsto dall’articolo 41 bis, dovrebbe, comunque, ritenersi che tale momentaneo cedimento, che, per quanto rilevante, sembra essere stato eccessivamente enfatizzato dall’accusa (non vennero concessi particolari benefici ai mafiosi, ma si applico’ a parecchi esponenti della criminalita’ organizzata – di cui solo limitata parte appartenenti a Cosa Nostra – un regime restrittivo meno rigoroso), sia avvenuto anche per cercare di evitare i colpi di un terrorismo mafioso che sembrava, in quel momento, incontrollabile”. I giudici smontano anche la tesi che voleva la sostituzione alla guida del Viminale di Vincenzo Scotti con Nicola Mancino come uno dei favori fatti dallo Stato alla mafia: una ricostruzione che poggiava sull’assioma che Scotti era stato strenuo avversario dei boss. Nella sentenza l’avvicendamento si riconduce tutto a motivazioni politiche.
Il dialogo intrapreso dal Ros con l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, dunque, sarebbe stato un’iniziativa personale degli ufficiali che si mossero “autonomamente” e non “su precisa sollecitazione politica e con il sostegno del gruppo dirigente della Democrazia Cristiana”. Particolarmente duro il giudizio sull’impianto probatorio della Procura, definito “contraddittorio e confuso” e su uno dei principali testi del processo, Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco, stroncato e definito incline a vanterie e a manipolazioni di documenti. Nella sentenza si esclude, poi, che il giudice Paolo Borsellino sia stato assassinato perche’ aveva saputo dei contatti tra il Ros e Ciancimino senior e quindi della trattativa. “Un’ipotesi – scrivono magistrati – rimasta senza riscontri”. Giudizi che certamente avranno un peso sul processo sulla trattativa in corso davanti alla corte d’assise di Palermo. (ANSA)