Roma, 25 febbraio 2014 – Sono passati tre anni da quel freddo sabato 26 febbraio del 2011, quando un appassionato di aeroplanini chiamò trafelato il 113 della questura di Bergamo perché in un campo di Chignolo d’Isola, vicino a una zona industriale e a una discoteca, aveva trovato il corpo di una ragazzina. Era Yara Gambirasio, la ginnasta di 13 anni che la protezione civile con decine di volontari, i vigili del fuoco, la polizia, i carabinieri, stavano cercando da tre mesi esatti, da quel 26 novembre in cui doveva rientrare a casa dalla palestra di Brembate Sopra, dove aveva portato un registratore alle compagne di ginnastica. 800 metri a piedi, un percorso quotidiano che la inghiottì nel mistero, per mano di un uomo che non ha ancora un nome, e nemmeno un volto, solo un codice: «Ignoto 1», così si chiama il suo profilo genetico, estratto dal Ris di Parma grazie a due piccole tracce di sangue trovate sugli slip e sui leggings neri di Yara.Tre anni dopo le indagini languono. Non ci sono nuovi spunti sulla scrivania del pubblico ministero Letizia Ruggeri, titolare dell’inchiesta, affiancata per tre anni da consulenti di biologia forense, ma anche dagli investigatori più esperti messi a disposizione dal Servizio Centrale Operativo di polizia o dal Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri. In gran parte l’inchiesta è stata affidata ai mezzi tecnologici e scientifici più avanzati, alle risorse più importanti dei corpi di polizia e non solo. Si iniziò con i cani molecolari, che fiutando un calzino della giovanissima campionessa di ginnastica, partirono dal centro sportivo di Brembate Sopra e arrivarono pochi chilometri dopo al centro commerciale in costruzione a Mapello, affacciato sull’ex statale Briantea. In uno stanzino di cavi elettrici, in particolare, i cani fiutarono tracce intense della ragazzina. Ma l’unico fermo di tutta l’inchiesta, quello dell’operaio marocchino Mohamed Fikri, che lavorava a Mapello, si è rivelato un errore: la querelle attorno alle intercettazioni telefoniche del 3 dicembre 2010 – in cui il piastrellista non pronunciò mai la parola «uccidere», a differenza di quanto affermato in una prima traduzione – si è risolta solo l’estate scorsa, con un’archiviazione: quasi mille giorni sotto inchiesta.
Gli investigatori hanno passato al setaccio ogni filmato delle telecamere nella zona di Brembate Sopra, a soli nove chilometri da Chignolo, il luogo del ritrovamento del corpo. Sono stati analizzati anche i video di tutti gli occhi elettronici installati alle frontiere con la Svizzera, ma senza alcun risultato. Nessun esito nemmeno dalle celle telefoniche: migliaia di persone si sono sottoposte al test del Dna perché il loro telefonino, il 26 novembre del 2010, aveva agganciato la cella di Brembate o quelle limitrofe. Nulla.
L’unico spunto di speranza la scienza l’ha offerto proprio nei giorni immediatamente successivi al ritrovamento del corpo: due tracce ematiche isolate dal Ris sui vestiti della ragazzina. Tracce di sangue di un uomo, entrambe con lo stesso profilo. Una svolta che poteva apparire decisiva, soprattutto quando la squadra mobile della polizia – diretta dall’attuale capo gabinetto della questura di Venezia Giampaolo Bonafini – entrò nella discoteca Sabbie Mobili Evolution, a pochi metri dal luogo del ritrovamento, prelevando il Dna a tutti i frequentatori: fu lì che venne fuori il profilo genetico di un trentenne, somigliante a quello dell’assassino. Da quel momento è stata passata al setaccio la famiglia estesa del cliente delle Sabbie Mobili: parente dopo parente, zio dopo zio, si è arrivati al Dna di un autista di pullman morto nel 1999, Giuseppe Guerinoni di Gorno (in Valle Seriana). Il suo profilo genetico è stato estratto da un francobollo e da una marca da bollo: lui è il padre illegittimo dell’assassino, ne è convinto anche Emiliano Giardina, consulente della procura e professore dell’Università di Roma Tor Vergata. Con chi ha avuto un figlio fuori dal matrimonio, Giuseppe Guerinoni? Solo un vecchio amico dell’autista scomparso ha rotto il silenzio: «Negli anni ‘60 mi disse di aver combinato un guaio con una donna di Rovetta». Ma anche attorno alla storia del papà dell’assassino è rimasto il mistero: nessun altra segnalazione utile.
Telecamere, celle telefoniche, 18 mila profili genetici prelevati (ormai solo qualche centinaio ancora da analizzare): tanta tecnologia, tanta scienza. Pochi spunti, invece, da indagini più tradizionali. Anche se qualche elemento era emerso e a un certo punto dell’inchiesta sembrava poter rivitalizzare la pista del cantiere: fibra di cemento nei bronchi di Yara, fibre di probabili sacchi sintetici sui suoi vestiti. Ferite sul corpo forse praticate con un taglierino, o comunque con una lama molto sottile. L’omicidio di Yara, colpita anche alla testa forse con una pietra, è stato commesso in un cantiere? Un’altra domanda senza risposta, una delle tante.