Perché non esiste una cura per Ebola?

ebola tbc malattia infettivaMancanza di fondi e carenze normative rallentano la ricerca su farmaci e vaccini
di Helen Branswell

3 Agosto. – Una squadra della Croce Rossa conduce alla sepoltura il corpo di una giovane vittima del virus Ebola a Koundony, in Guinea, il 9 luglio scorso. Fotografia di Samuel Aranda, The New York Times, via Redux.
È ormai di oltre 700 morti il bilancio dell’epidemia di Ebola che da mesi sta devastando l’Africa occidentale. Più di 1.300 persone sono state infettate dal virus in tre paesi – Guinea, Sierra Leone e Liberia – mentre un quarto, la Nigeria, che è anche il più popoloso paese africano, attende con il fiato sospeso di capire se l’americano Patrick Sawyer, morto a Lagos dopo essere sbarcato già malato da un volo proveniente dalla Liberia, possa aver contagiato altre persone. Anche se le autorità sanitarie occidentali annunciano misure di sicurezza ed escludono una pandemia globale, si prevede che la malattia farà ancora molte vittime prima di essere debellata.

Ma come combattere una patologia così aggressiva? Da anni gruppi di ricercatori cercano di mettere a punto cure che possano rallentare, se non arrestare del tutto, la diffusione dell’epidemia. Ma le ricerche sono ferme in una sorta di limbo dovuto a mancanza di fondi o a ostacoli normativi. La conseguenza è che non esistono né vaccini per la prevenzione né farmaci specifici per la terapia.

Ai pazienti colpiti da Ebola i medici si limitano a somministrare antibiotici ad ampio spettro per prevenire le infezioni opportunistiche, come polmonite o setticemia, che possono approfittare della debolezza del sistema immunitario. Viene dato loro del cibo, se sono in grado di mangiare, e soluzioni reidratanti per rimpiazzare i liquidi persi con vomito e diarrea. Da notare che questi ultimi due sono i sintomi più diffusi della malattia: le gravi emorragie che spesso vengono associate a Ebola si verificano solo in una piccola percentuale dei casi.

Quello che si può fare

Si chiamano terapie di supporto, e il nome dice tutto. Per i più fortunati – di solito i pazienti che si rivolgono presto al medico – possono essere utili a guadagnare il tempo necessario a ricostituire il sistema immunitario, che all’inizio viene devastato dal virus. Per gli altri, servono solo da palliativi per rendere meno terribili gli ultimi giorni prima della morte.

La mancanza di cure crea anche un circolo vizioso di diffidenza e terrore tra pazienti e operatori sanitari. Chi sospetta di essere infetto ha però ancora più paura di sottoporsi ai test: i malati vengono considerati condannati a morte, discriminati e isolati. Chi poi risulta positivo spesso rifiuta di farsi rinchiudere nei centri d’isolamento, dove le visite dei parenti sono vietate e da dove in molti casi si esce solo in una sacca sigillata: per ragioni di sicurezza, anche i funerali tradizionali sono proibiti.

Queste necessarie precauzioni hanno però fatto nascere tra le popolazioni colpite voci e credenze che rendono ancor più difficile combattere la malattia. Si dice che le équipe mediche composte da volontari stranieri spargano volontariamente l’infezione o uccidano i malati per rubarne gli organi. Gli operatori sanitari che cercano di identificare e isolare i pazienti vengono spesso minacciati o respinti con lanci di pietre e bastonate.

Ma restare in famiglia non salva il malato, e rischia di gettare nel mortale abbraccio di Ebola anche parenti e amici. È facile contrarre il virus pulendo il vomito e la diarrea di un malato, o preparando un cadavere per la sepoltura.

Tutto sarebbe più facile se esistesse un farmaco per la malattia, spiega Marc Forget, un medico canadese che ha sperimentato l’ostilità della gente durante una recente missione in Guinea per Medici senza Frontiere. “Potremmo andare nei villaggi e dire: voi avete Ebola e io ho una medicina speciale che farà sparire il virus. Ma per prenderla dovete venire con me al centro medico”.

Speranze e delusioni

In realtà, alcune terapie per l’Ebola sono state sperimentate con successo su primati non umani. Dei vaccini sperimentali, la maggior parte funziona solo come prevenzione dell’infezione, ma uno, messo a punto da scienziati della Public Health Agency of Canada insieme all’Istituto di ricerca medica sulle malattie infettive dell’esercito americano, è stato testato su animali che 30 minuti prima erano stati infettati con massicce dosi del virus, salvandone la metà.

Nel 2009, il vaccino è stato somministrato anche a una ricercatrice tedesca che si era punta per caso con un ago mentre lavorava sul virus dell’Ebola. La donna è poi sopravvissuta, ma non è chiaro se sia stato il vaccino a salvarla o se semplicemente non fosse stata infettata.

Gli scienziati sono al lavoro anche su vari tipi di farmaci. Diverse équipe stanno sperimentando cocktail di anticorpi monoclonali, vale a dire anticorpi clonati da un’unica linea cellulare in grado di agire sul rivestimento proteico del virus Ebola. Queste terapie si sono dimostrate altamente efficaci nei test sugli animali.

Un altro farmaco, basato sul meccanismo dell’interferenza dell’RNA, è nella prima fase di sperimentazione clinica su esseri umani sani, ma la Food and Drug Administration – l’ente di controllo sui farmaci del governo statunitense – ha bloccato i test in attesa di informazioni sulle reazioni al farmaco subite da uno dei pazienti.

Ma queste terapie, per quanto promettenti, restano a languire in laboratorio. La messa a punto di un farmaco o di un vaccino è un procedimento costosissimo, e una ditta farmaceutica non potrà mai recuperare l’investimento vendendo sul mercato una terapia per l’Ebola. La malattia è devastante ma rara: da quando è stata identificata, nel 1976, sono stati censiti meno di 4.000 casi. Anche se i paesi africani potessero permettersela, una campagna di vaccinazioni a tappeto non avrebbe senso dal punto di vista economico.

Il risultato è che le grandi ditte hanno abbandonato la ricerca, oggi confinate a piccoli laboratori o compagnie biotech finanziate dai governi.

“Non c’è molto da guadagnare in questo campo”, dice Tom Geisbert, professore di microbiologia e immunologia alla University of Texas, che ha collaborato a diverse ricerche sul tema. “Le cure per il cancro, per le malattie cardiovascolari o persino le patologie infettive più diffuse, come la malaria, danno prospettive di profitto molto migliori”.

Senza le risorse di Big Pharma, trovare i soldi per ricerca e sperimentazione è un’impresa quasi impossibile. Il virologo Heinz Feldmann, che ha guidato la messa a punto di uno dei vaccini, ha provato a passare alla fase successiva, lo sviluppo di un vaccino sperimentabile sugli esseri umani. Ma le case farmaceutiche a cui si era rivolto gli hanno risposto che un solo lotto del vaccino sarebbe costato tra i due e i quattro milioni di dollari.

Gli studiosi si trovano quindi davanti a un vicolo cieco. Per dimostrare che un farmaco o un vaccino sia efficace , un’agenzia di regolamentazione (come la FDA) esige che sia stato prima sperimentato su persone infette o che almeno siano state esposte all’infezione. Nel caso di Ebola, a meno di augurarsi un incidente di laboratorio, questo si può fare solo nel corso di un’epidemia. Ma può essere molto rischioso usare in Africa terapie che sono state testate solo su animali e in piccoli trial clinici su persone sane. Senza contare l’enorme diffidenza già manifestata dalle popolazioni locali nei confronti degli operatori sanitari occidentali.

I tentativi di “approfittare” dell’epidemia in corso per mettere alla prova le terapie sperimentali sono quindi finora andati a vuoto. Feldmann racconta di essere stato contattato all’inizio dell’epidemia da Medici senza Frontiere, che voleva un consiglio su come proteggere le sue squadre dirette in Africa. Ma la discussione non ha prodotto nulla di concreto.

Dopo che alcuni operatori sanitari sono stati infettati, continua Feldmann, si è riparlato di sperimentare farmaci e vaccini su di loro. Ma l’idea suscita diversi problemi etici: come decidere chi deve essere protetto e chi no? Inoltre, non è per niente chiaro quanti di questi prodotti sperimentali per uso umano siano effettivamente disponibili (forse ce ne sono pochissimi), né se le compagnie o i governi che ne detengono i brevetti sarebbero disposti a cederli.

Insomma, al terrore che imperversa nei paesi colpiti i ricercatori che lavorano sull’Ebola possono contrapporre quasi soltanto la loro frustrazione. “I ricercatori della mia équipe”, racconta Feldmann, “vengono da me e mi chiedono: ‘Ha senso, quello che faccio? O è un lavoro puramente accademico?”

NationalGeographic