L’ antimafia, un tempo, era una cosa seria. Poi, per più di una ragione, è iniziato il suo declino. Oggi il solo evocarla fa scattare un senso di scetticismo. Sarà perché i magistrati che dovrebbero tenerne alta la bandiera da anni mettono in piedi processi senza costrutto; sarà perché quegli stessi pm inseguono teoremi più che perseguire reati; o forse perché a riempirsi la bocca di quella nobile parola sono ormai giornalisti e attori incappati in spiacevoli equivoci; o magari perché chi l’antimafia avrebbe dovuto rappresentarla, spesso si è trovato dall’altra parte, accostato alla “cupola” e ai suoi uomini. Sarà per tutti questi motivi, ma oggi celebrare l’antimafia, i suoi uomini, i suoi successi, è diventato un arduo atto di coraggio. Il primo flop risale al processo a Giulio Andreotti. L’aver portato alla sbarra l’ex presidente del Consiglio, accusandolo di concorso esterno per associazione mafiosa, inseguendo conferme sul suo bacio al boss dei boss, Totò Riina, per poi assistere a una giusta assoluzione, è stato un potente uppercut per una procura, quella di Palermo, che dovrebbe incarnare l’antimafia infallibile. Lo stesso dicasi per un secondo processo di mafia, quello all’ex ministro Calogero Mannino, assolto anche lui.
Ma a segnare l’inizio del declino dell’”antimafia di professione”, è un terzo processo, quello su mandanti e autori dell’omicidio di Paolo Borsellino. Anni di indagini, udienze e certezze basate sulle parole di un falso pentito, Vincenzo Scarantino, che ha portato magistrati e giudici a perseguire e condannare innocenti. E chi si ricorda di Balduccio Di Maggio, il pentito che s’inventò il bacio fra Riina e Andreotti, che ai pm faceva credere di non riuscire più a camminare e a casa sua, detenuto agli arresti domiciliari, riceveva, in piedi, i suoi uomini, ordinando omicidi e ricostituendo le cosche?
E che dire, venendo a fatti più recenti, del tentativo di appicciare un marchio d’infamia addosso all’ex generale del Ros, Mario Mori, e al Capitano Ultimo, “crocifissi” dall’”antimafia brillante” per la mancata perquisizione al covo di Riina e poi assolti. E si fatica a credere che quella stessa antimafia ha ipotizzato che Silvio Berlusconi fosse il mandante delle stragi del ’93, che la sua azienda sia nata coi soldi della mafia e che dietro la nascita di Forza Italia ci sia Cosa Nostra.
Ma se l’alloro affisso alle porte di certi uffici si è seccato, è anche per via di un nome: Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, che nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia è testimone e pure imputato. Le “patacche” di Ciancimino jr sono leggenda, ma per un’altra ex figura dell’antimafia palermitana, Antonio Ingroia, Massimino rimane “quasi un’icona antimafia”. Un’icona in grado di ispirare un film, quello di Sabina Guzzanti sulla Trattativa, un flop cinematografico che non toglie alla regista il diritto, da lei preteso, ad avere la patente di questa antimafia. C’è, poi, il fratello di Paolo Borsellino, Salvatore, immagine quasi sacra dell’antimafia, immortalato in un affettuoso abbraccio con Ciancimino jr. E c’è anche l’altra antimafia, quella industriale, incarnata in Sicilia da Antonello Montante, delegato per la legalità di Confindustria e ora sospettato di frequentare mafiosi. E prima di lui Roberto Helg, presidente della Camera di commercio di Palermo, finito in carcere perché sospettato di estorsione dopo aver vestito panni simili a quelli di Montante.
E infine l’”antimafia di carta”, rappresentata da Roberto Saviano, condannato per plagio e che anni fa s’inventò la telefonata d’incoraggiamento della mamma di Peppino Impastato. A questo si è ridotta una nobile storia.
di Luca Rocca
Roma, 2 aprile 2015