Non sarò io a voler privare Pigi Battista della “nostalgia struggente per i giudici che parlavano solo con le sentenze”, mancherebbe altro. E figuriamoci se qui non si sia d’accordo con la denuncia del protagonismo mediatico e politico che oggi caratterizza tanti magistrati. Non che nel passato, rimpianto da Battista, non ci fossero soggetti del genere. Il giudice istruttore Raffaello Sepe seppe conquistarsi sessant’anni fa, attraverso il caso Montesi, un risalto mediatico da far impallidire quello del pool di Mani pulite. Era però una eccezione, su questo posso convenire. Ma anche la normalità non era rassicurante. I giudici parlavano per sentenze, è vero, ma le loro parole sancivano assoluzioni per i mafiosi e condanne per chi li denunciava. Il loro riserbo era proverbiale, nel senso che molte volte non parlavano perché si guardavano bene dal fare i processi. Siamo passati negli anni settanta, quasi senza accorgercene, dal “porto delle nebbie” ai “pretori d’assalto”, da una magistratura più ossequiosa dell’ordine che della legge ad un’altra pronta a piegare la procedura in nome della giustizia sostanziale. Naturalmente, nell’uno e nell’altro periodo ci sono state ragguardevoli eccezioni, che però hanno dovuto pagare un prezzo altissimo. Il paradosso è che in questa oscillazione così netta si può rintracciare una continuità nella mancanza di uno stato di diritto effettivamente vigente. Per questo non ho nostalgie. Ma forse mi sbaglio.
di Massimo Bordin
Fonte IL FOGLIO
Roma, 4 novembre 2015