Il tribuno della tele

Domenica 24 aprile, domani, Maurizio Crozza festeggerà i suoi primi dieci anni su La7 con un “Crozza 10 anni” trasmesso in prime time per rievocare il decennio trascorso sulla rete di Urbano Cairo. Omaggio inevitabile: l’ultima puntata di “Crozza nel paese delle meraviglie” ha sfiorato il 10 per cento di share, meglio di un amuleto.

Occasione per chiedersi: che cosa è successo, in questi dieci anni? Dove sono finiti i talk? E com’è che Maurizio Crozza è diventato il nuovo Tribuno della tele? Nato attore di teatro, passato al cabaret con i Broncoviz, esploso come imitatore (ma sulla Rai, a “Quelli che il calcio”)

Crozza non era partito già bravo, già mattatore unico delle coscienze. Da ottimo professionista, ha lavorato e trovato a poco a poco la sua identità, modellandola insieme a quella della sua rete. Bravo anche a costruire una squadra di autori di tutto rispetto, una mezza dozzina, soprattutto il suo autore-spalla Andrea Zalone. Una macchina che gira a mille, con grande autonomia, ormai una vera e propria factory che fattura oltre dieci milioni a stagione e che viaggia oltre le medie di rete.

Che piace al pubblico colto politicizzato e a quello generalista. Anche se poi sbaglia sui nuovi pubblici: la sua imitazione di Frank Matano, che ha indignato la community degli youtuber (gli youtuber sono un po’ come i grillini: reagiscono a branco) era scombiccherata, volgare.

Ma Crozza oggi è soprattutto l’unico che nella tv generalista italiana faccia ancora satira politica. C’è stata una grande morìa dei satiri, nel frattempo. Sarà la censura? Sarà che il renzismo è meno tollerante del fu berlusconismo bulgaro? Chi lo sa.

“Di certo, l’aspetto principale è che la fine del berlusconismo ha trascinato nell’irrilevanza e fatto sparire tutta una generazione di comici che avevano come principale canovaccio e bersaglio Berlusconi”, annota Maurizio Caverzan, che sul suo blog CaveVisioni.it mette in ordine con pazienza i segnali del piccolo schermo e delle (grandi) politiche televisive.
Sta di fatto che Crozza è rimasto. Solo.

E con la forza del suo successo può permettersi di sparare al bersaglio grosso. Che si chiama Matteo Renzi. Fa quello che i talk, neppure quello di cui è ospite e traino su La7, sono più in grado di fare.

Il 10 gennaio 2013 potrebbe essere considerata la data di morte simbolica del talk-show politico. Fu quando l’Arcinemico di un ventennio, Silvio Berlusconi, spazzolò con il fazzoletto la sedia di “Servizio pubblico” su cui si era seduto Marco Travaglio, trasformando in un teatrino ormai destituito di ogni reale ostilità la sua ospitata da Michele Santoro.

L’involontario (involontario?) effetto “combattenti e reduci” metteva una divertita malinconia, e ha segnato più di tante parole la chiusura di un’epoca basata su due poderose architravi: il dominio politico di un leader che incarnava la televisione tradizionale e il dominio mediatico del modello “Conduttore unico delle coscienze”, come lo sono stati Santoro ma anche Gad Lerner e vari epigoni minori.

In ogni caso, un modello di comunicazione-informazione basato su un conduttore di forte personalità e di netto profilo politico, calato in un quadro in cui “l’evento” del talk funzionava da parlamentino del dibattito pubblico e da catalizzatore dell’agenda nazionale. Non sono soltanto i dati dell’Auditel a certificare che, in meno di tre anni, quel modello è divenuto obsoleto.